La rappresentazione dell’arancia come protagonista di racconti illustratori di personaggi appartenenti ad epoche antecedenti, divenne sempre più presente, viene posta al centro come metafora descrivendo in sé il carattere distintivo del personaggio raccontato, dalla buccia dura all’apparenza ma con un animo dolce come il succo al suo interno. Così che, quando negli anni trenta Vittorini rappresenta il suo celebre venditore d’arance, il tragico siciliano con la piccola moglie, costretto a mangiare arance, solo arance che nessuno vuole, non tiene più in mano il frutto ma la propria disperazione: tratto distintivo della propria avvilita miseria e della propria diversità.”Osservai il piccolo siciliano dalla moglie bambina pelare disperatamente l’arancia, e disperatamente mangiarla, con rabbia e frenesia, senza affatto voglia, e senza masticare, ingoiando e come maledicendo, le dita bagnate di sugo d’arancia nel freddo. E lui, piccolo siciliano, restò muto nella speranza, poi guardò ai suoi piedi la moglie bambina che sedeva immobile, scura, tutta chiusa, sul sacco, e diventò disperato, e disperatamente, si chinò e sfilò un po’ di spago dal paniere, tirò fuori un’arancia, e disperatamente l’offrì, ancora chino sulle gambe piegate, alla moglie e, dopo il rifiuto senza parole di lei, disperatamente fu avvilito con l’arancia in mano, e cominciò a pelarla per sé, a mangiarla lui, ingoiando come se ingoiasse maledizioni.” – scrive Vittorini.